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Scoprire il Venezuela (2)

Dalla Gran Sabana al Parco Nazionale di Canaima

Dalla Gran Sabana al Parco Nazionale di Canaima


di Tiziana Leotta

5° Giorno- Puerto Ordaz – Gran Sabana

Dopo l’incontro con il mondo della giungla siamo pronti per partire alla volta della Gran Sabana: 45.000 kmq di altopiano che accompagnano il Venezuela al confine col Brasile.

Una generosa colazione a base di frittelle di patate spalmate con burro e marmellata è quel che ci vuole per affrontare sedici ore di viaggio in sella ad uno scomodissimo fuoristrada che  mette a dura prova il nostro collaudato spirito di adattamento.

Per fortuna le sorprese che ci riserva questa nuova avventura dissimulano in breve tempo ogni difficoltà.

Accompagnati da David usciamo da Puerto Ordaz attraversando quartieri industriali e tristi baraccopoli e ci avviamo su una strada a due corsie, costellata di scritte, manifesti e persino una gigantesca statua di Simon Bolivar. Un centinaio di chilometri abitati solo da alberi e placide vacche al pascolo ci conducono fino ad El Callao, città dell’oro e del Calypso. E a quanto pare anche del football. Almeno così sembrerebbe, vista l’importanza dedicata al monumento alla prima squadra di calcio professionista del Venezuela, il “Minero di El Callao”. Approfittiamo per rilassare le gambe facendo due passi per il centro di questa colorata e caldissima cittadina.

Nella città dell’oro non potevano mancare le gioiellerie, ma quel che più ci sorprende sono invece le famacie. Sì, perchè da queste parti sono un po’ diverse dall’idea a cui siamo abituati. In farmacia qui ci si trova davvero di tutto, compresa una bella coca fresca per avere un po’ di sollievo dal caldo soffocante. Anche le famaciste, in jeans aderenti e top di paillettes che rivelano forme rubate a un quadro di Botero, non passano certo inosservate.

Ci fermiamo per fare rifornimento di carburante. Dobbiamo attendere più di mezz’ora in coda perchè ci sono tantissime macchine. La benzina costa davvero pochissimo: probabilmente la coca cola era più cara dei 40 litri che si è bevuto il serbatorio della nostra auto. Ci rimettiamo in viaggio e, lungo la strada, incontriamo numerosi posti controllo presidiati da militari appena adolescenti che, mitra alla mano, vigilano sul traffico di contrabbandieri verso la frontiera col Brasile. Persino nelle stazioni di servizio ci sono militari che annotano una ad una le targhe dei veicoli.

Facciamo sosta per il pranzo sotto una tettoia a bordo strada, dove dei pezzi enormi di carne asada stanno cuocendo sul fuoco infilzati in grossi spiedi. Osserviamo l’uomo con le mani unte che prende i pezzi di carne cotta, li taglia a fette con un coltellaccio e li pesa su una bilancia prima di servirli ai commensali di turno. Non avrei scommesso nemmeno un centesimo sul fatto che in questo posto sudicio avrei mangiato la carne più buona mai provata prima. Ma tant’è.

Sulle note dei Gipsy King e di David che canta a squarciagola ci rimettiamo in marcia. Attraversiamo un ponte costruito – sostiene orgogliosamente David – con gli stessi materiali utilizzati per la Tour Eiffel, mentre la nostra jeep si fa largo tra le nuvole di farfalle gialle che invadono la strada. Lentamente prendiamo quota, accompagnati da una pioggia tropicale battente che tintinna sui finestrini per diversi chilometri. Per fortuna quando arriviamo nel punto più alto ha già smesso. Perchè quì è così: gli acquazzoni non durano mai più di poche manciate di minuti.

Davanti a noi si apre un paesaggio che l’occhio non riesce a contenere: distese di prati verdi, colline, tepuis (montagne con la cima piatta) e un bel cielo terso. E’ la Gran Sabana.

Ancora alcuni chilometri, scansiamo degli avvoltoi che giocano a calcio e abbandoniamo la strada principale per immetterci in una stradina dal fondo di terra rossa, superando diversi corsi d’acqua su poco rassicuranti ponti di ferro senza alcun genere di protezione. David, che si diverte un mondo a spiare i nostri sguardi un po’ timorosi, ci chiede sogghignando se la sensazione è come quella di guidare nel traffico di Milano!

Considerato che negli ultimi duecento chilometri abbiamo incontrato un solo veicolo, fermo davanti a due improbabili trulli, direi che possiamo ufficialmente dichiarare che siamo ancora una volta fuori dal mondo.

Dopo un’altra deviazione raggiungiamo finalmente il campamiento che ci ospiterà per la notte. Due, tre casette e una lunga costruzione di sasso in cui sono ricavate delle camere. Decisamente spartano, ma accogliente. Le colonie di moscerini locali ci danno il benvenuto e ci scortano fino alla nostra stanza. Tetto in lamiera, che sotto l’ennesimo acquazzone, suona una musica che a malapena ci consente di sentire le nostre voci e qualche goccia d’acqua che filtra tranquillamente dentro la camera. La cena merita una nota particolare: servita in una sorta di taverna con le finestre senza vetri, grandi tavoli tipo rifugio alpino, una micro televisione modello anni Cinquanta che trasmette “X-Man” in spagnolo e un pavimento costellato di scarafaggi vivi e morti. Dopo l’esperienza nella giungla non ci stupiamo più di tanto, anzi, credo che questo animale dovrebbero metterlo pure sulla bandiera nazionale, perchè ce ne sono praticamente ovunque! Persino sul tavolo, nel piatto del nostro amico David, che lo prende con le mani senza troppi indugi e lo accompagna alla porta. Una bella zuppa calda ci voleva proprio, anche perchè fuori il clima si è fatto fresco. A seguire un piatto di carne con patate e una pesca sciroppata.

Ci portiamo in camera due bicchieri d’acqua minerale per lavarci i denti, visto che quella che esce dal rubinetto è di un giallo disgustoso. Così finiamo a darci una lavata sommaria con le salviettine umidificate – che per fortuna abbiamo in abbondanza – e l’amuchina.

6° Giorno- Gran Sabana – Santa Elena de Uairen

All’alba ci attende una ricca colazione a base di uova fritte, prosciutto, queso, frittelle di mais e patate, latte e caffè. L’unica cosa dolce – non sopporto il salato a colazione – sono delle ottime e leggere frittelle di pastella che, spalmate di burro e zucchero come quando ero bambina, sono decisamente più invitanti. David ha pensato bene che, in tutta questa macedonia di sapori, una bella spruzzata di salsa picante è proprio quel che ci vuole!

In qualche modo si riparte alla volta del villaggio indigeno di Liwo-Riwo, sulla sponda del fiume Aponwao. Dopo una colazione come quella di oggi bisogna avere proprio uno stomaco d’acciaio per sopportare i chilometri di strada sterrata che percorriamo. Più che di una strada si potrebbe dire che sembra di essere nel letto di un fiume: sassi enormi, buche, salti, fango, pozze d’acqua, una serie di canyon e un pazzo alla guida. Non so come possano chiamarla strada! David si diverte un sacco a sgommare e a far sbandare la macchina in una grande piana semi fangosa, mentre noi ci teniamo ben saldi alle maniglie in attesa che finisca questo giro sugli autoscontri che non avevamo previsto.

Liwo-Riwo è un villaggio di quattro o cinque case in muratura e qualche capanna in fango e legno col tetto di paglia. Conosciamo subito la nostra guida, Felix, un pemòn con cappello da cowboy e coltello legato alla cintura. Saliamo insieme ad altri cinque turisti (oggi c’è ressa…) su una stretta e lunga canoa a motore, instabile e a pelo d’acqua, con la quale risaliamo il fiume per una ventina di minuti, per poi proseguire a piedi fino al limite superiore dell’imponente cascata Chinak-Merù o Salto Aponwao. Il salto è impressionante: 105 metri di acqua che cade fragorosamente sollevando enormi nubi di vapore. Scendiamo fin sotto la cascata e ci avviciniamo talmente tanto che in pochi secondi siamo fradici. Stare in piedi a braccia aperte urlando davanti alla cascata dà un senso di potenza senza eguali.

Sulla via del ritorno Felix ci mostra una pianta carnivora e un termitaio, raccontando che gli indigeni usano le formiche per chiudere le ferite spalmandole addosso come una crema e anche per il mal di gola! A riprova di ciò infila un dito nel termitaio e se lo lecca compiaciuto, sostenendo che sa…di menta!

Torniamo al villaggio dove compriamo qualche oggetto di artigianato e consumiamo un pranzo a base di pollo al miele con patate e cetrioli. Mentre rubiamo qualche scatto fotografico ai bambini indigeni che giocano lì intorno, David ci racconta di avere ben nove figli, avuti da otto donne diverse, mentre lui vive solo nella sua fattoria dove ogni tanto i figli lo vanno a trovare.

Proseguendo verso Santa Elena de Uarein, tra arcobaleni e acquazzoni, ci fermiamo a vedere qualche altra cascata. Vicino ad uno di questi salti incontriamo una famiglia con ben 17 figli, impegnati a setacciare la sabbia del fiume su due fogli di quaderno a righe alla ricerca di polvere d’oro.

Raggiungiamo Santa Elena verso le 18.00. Una cittadina di frontiera, chiassosa e colorata. David procede tra botteghe che vendono qualsiasi cosa, salutando tutti e tutte, al suono di canzoni spagnole da osteria.

Attraversiamo il paese e dopo l’ennesimo tratto di strada sterrata (ancora?) arriviamo al campamiento ecologico Yakoo dove ci vengono subito incontro due cani dalmata. Il posto è molto carino, con un bel giardino, una camera col patio tutta ecologicamente arredata, l’acqua calda (per fortuna non gialla!) e due simpatiche lucertole che si sollazzano nell’armadio e nel nostro letto! Ceniamo sotto una deliziosa capanna con le amache arredata con gli oggetti più strani: un gatto-robot che fa il saluto romano e una fotografia di Sai Baba meritano una menzione speciale.

7° Giorno- Santa Elena de Uairen

L’ennesimo esemplare di scarafaggio gigante se ne sta placidamente adagiato sulla spalliera della mia sedia mentre facciamo colazione.

La zona di confine è un vero crocevia di persone, macchine, camion, botteghe, bancarelle, colori, accenti più o meno melodiosi. Sembra una piccola città, agghindata a festa con le bandiere dei due paesi. Un passo e siamo in Brasile.

Il nostro viaggio prosegue però ancora in Venezuela, alla scoperta della Quebrada del Jaspe, una cascata che si butta su un fondo pietroso di diaspro rosso. Pochi secondi e siamo in costume sotto gli zampilli a goderci il massaggio e il fresco. Quasi non ci accorgiamo che anche dal cielo comincia a diluviare.

Andiamo a visitare la comunità indigena di San Francesco de Yuruani. Per quanto organizzata con scuola, chiesa, rudimentali municipi e un silenzio rotto solo dal passaggio di qualche macchina e dalle voci di un televisore, mi stupisco delle condizioni in cui vive questa gente e mi perdo negli occhi ignari dei bambini che riflettono un mondo così grande e diverso che forse non vedranno mai.

Ci fermiamo a vedere la cascata Yuruani: praticamente ci arriviamo dentro in macchina e David ci chiede spiritoso se vogliamo fare un po’ di rafting. Per fortuna la retromarcia entra al primo colpo!

Ancora qualche decina di chilometri prima di inerpicarci per l’ennesima strada sterrata. Decisamente lo sterrato più sterrato mai visto prima: guadi, sassi enormi, crepe nella terra, colline in mezzo alla strada. La macchina si inclina paurosamente da tutte le parti e finalmente arriviamo in una località dove il fiume forma delle piscine naturali di acqua tiepida. Ci fermiamo un paio d’ore a rilassarci ignari, mentre i feroci mosquitos della Sabana ci fanno una festa di cui ci porteremo a casa il ricordo e di cui ancora portiamo i segni.

Torniamo per cena al campamiento e, mentre ci gustiamo il pollo con riso e avocado, David ci racconta della passione per il torero venezuelano, uno sport molto diffuso in tutto il centro e il sud America, per il quale lui alleva i cavalli nella sua fattoria con aria condizionata e tv a 52 pollici di Puerto Ordaz. In sostanza  quattro uomini a cavallo rincorrono un toro e vince il primo che riesce ad atterrarlo. A quanto pare i venezuelani sono campioni di questo sport.

8° Giorno- Gran Sabana – Canaima

Appena svegli cominciamo a grattarci come scimmie. Scopriamo di essere pieni di punture dei moscerini della Gran Sabana. Ovunque.

Ci trasciniamo insieme al fastidioso prurito verso l’aeroporto di Santa Elena dove attendiamo l’imbarco sotto un piccolo portico con il tetto di paglia osservando un po’ increduli i minuscoli velivoli parcheggiati sulla pista. Nulla a che vedere con gli aeroporti a cui siamo abituati. Ci viene incontro direttamente il nostro pilota, Alberto Noriega, che ci conduce personalmente sulla pista. Camicia da pilota con tanto di distintivi, jeans, cappellino con scritta la destinazione del volo e una valigetta malconcia e misteriosa. Ci accomodiamo su quello che definiscono un “aereotaxi monomotore” a cinque posti, sul quale si sta più stretti che su una Panda. Interni foderati in pelle, un po’ malridotto, tre ruote come un triciclo, coi finestrini che si aprono e acqua che entra non so da dove. Un Cessna YV1971 che sembra uscito direttamente da un libro sulla seconda Guerra mondiale. Ci allacciamo le cincture di sicurezza, arrugginite e quasi coreografiche, mentre attendiamo il nostro destino.

Siamo gli unici passeggeri, insieme al pilota che siede proprio davanti a me, così posso vedere tutti i suoi movimenti e i milioni di tasti, leve, pulsanti e aggeggi strani della postazione di comando. L’aereo viene trascinato a mano verso il punto di partenza. All’accensione del motore mi sembra di risentire lo stesso rombo della 128 di mio nonno di quarant’anni fa e sono sempre meno convinta di come questo trabicolo con le ali possa volare. Mi guardo intorno, cercando di individuare qualcosa che possa somigliare a un dispositivo di sicurezza…che so…un salvagente, un paracadute, ma vedo solo un piccolo estintore arrugginito tutt’altro che rassicurante.

Per quanto improbabile, il triciclo a motore decolla, in maniera anche abbastanza dolce e con una buona mezz’ora di anticipo. Destinazione: Parco Nazionale di Canaima.

Il frastuono è assordante, i vuoti d’aria sono un continuo per tutto il viaggio: ovviamente la cabina non è pressurizzata, così le nostre orecchie si chiudono quasi subito. Mentre ci godiamo l’incredibile panorama di altipiani, tepuis e corsi d’acqua, scattando mille fotografie, il serafico pilota scrive messaggi col suo telefonino, si controlla la messa in piega, scatta anch’egli fotografie, senza darsi alcuna pena per i banchi di nuvole nere che il micro aereo attraversa, facendoci sobbalzare di continuo insieme alla colazione nello stomaco.

Di sua iniziativa, il comandante fa una piccola deviazione di rotta per portarci a vedere il Salto Angel, che con i suoi 979 metri è la cascata più alta del mondo.

Purtroppo il viaggio è talmente breve – meno di un’oretta – che le hostess col carrello delle bevande non fanno in tempo ad arrivare fino alla fila in cui siamo seduti noi, così rimaniamo a bocca asciutta!

Dall’alto possiamo vedere la pista; il pilota la prende larga, gira intorno, forse in attesa di un segnale di fumo. Sono un po’ agitata perchè il carrello con le ruote si trova a pochi centimetri dal sedile su cui sono seduta e il contatto con la terraferma si fa sempre più vicino. Fortunatamente questo giocattolo con le ali atterra molto dolcemente e sono quasi dispiaciuta di dover scendere, proprio ora che cominciavo ad abituarmi.

All’arrivo scarichiamo i nostri bagagli direttamente sulla pista e ce li portiamo fino all’aeroporto, distante meno di una decina di metri. Decisamente il più piccolo aeroporto mai visto. Una tettoia con qualche bancarella di oggetti di artigianato locale e quattro piloti che giocano a carte e a domino per ingannare il tempo di una stagione ancora poco turistica.

Un piccolo camioncino ci conduce in pochi minuti di strada rigorosamente sterrata al Waku-Lodge, dove pernottiamo per un paio di giorni. Dopo aver rischiato di investire un tucano, siamo catapultati in una specie di isola che non c’è, completamente immersa nel verde della lussureggiante vegetazione, su una laguna in cui si gettano ben tre fragorose cascate di un colore molto simile al cuba libre.

Un gradito cocktail di benvenuto e prendiamo possesso della nostra camera affacciata su un bel prato all’inglese con patio e amache, luci suffuse, aria condizionata e la solita immancabile acqua gialla che esce dal rubinetto.

Nel pomeriggio ci aspetta un’avventurosa escursione nella laguna, tra le cascate del Salto Hacia, Ucaima e Golondrina, fino al Salto Sapo.

Saliamo su una lunga e umida curicaca insieme ad Archimede, la nostra guida. Dopo pochi minuti siamo già fradici a causa degli spruzzi e dell’ennesimo fulmineo acquazzone. Ci togliamo calze e scarpe e sbarchiamo per avvicinarci alla cascata. Il rumore è assordante; spruzzi d’acqua in tutte le direzioni mettono a dura prova le mie lenti a contatto mentre camminiamo in fila indiana dietro Archimede che si esibisce in urli tribali e ancestrali ogni volta che viene investito da un fiotto d’acqua.

Ci arrampichiamo su un sentiero praticamente verticale, aggrappati a sassi e radici per raggiugere la sommità del lato opposto della cascata, mentre Archimede ci delizia con i racconti di tutti quei temerari che hanno rischiato la vita scivolando nel fiume.

Esausti, sulla via del ritorno, camminiamo in mezzo al fango senza troppi problemi, a pochi centimetri da piante velenose e formiche paralizzanti. Per fortuna alla fine del sentiero ritroviamo la curicaca che ci riporta, fradici, al lodge. E’ stata decisamente l’escursione più faticosa di tutte, un po’ per la stanchezza accumulata nei giorni passati, un po’ per l’adrenalina del percorso tanto accidentato.

Trascorriamo l’intera giornata successiva a rilassarci e a riordinare lo zaino di emozioni che ci portiamo a casa da questo lungo viaggio, nell’attesa di ritrovare la tranquilla e lontana quotidianità della nostra petrosa Itaca.