Forget Hollywood. La vera vita di Los Angeles scorre su Wilshire Boulevard. Prima puntata sulla città dei sogni
di Beatrice Cassina
Il commediografo Neil Simon ha scritto: “Quando ci sono 100ºF a New York, ce ne sono 72 a Los Angeles. Quando ce ne sono 30 a New York, a Los Angeles, ancora, ce ne sono 72. Comunque, ci sono 6 milioni di persone interessanti a New York e sempre 72 a Los Angeles”.
La città degli angeli, amata a volte, molto più spesso odiata, è letta per lo più come un luogo di superficialità, finzione, privo di complessità e cultura.
Forse è così perché è identificata attraverso un processo che prende una parte – quella più celebre e discussa, cioè Hollywood – per il tutto. Andy Warhol infatti, con una pungente ironia, aveva detto: “Amo Los Angeles. Amo Hollywood. Sono belle. Tutti sono di plastica, ma io amo la plastica. Vorrei essere di plastica”. Los Angeles però non è solo plastica. E tanto meno è soltanto Hollywood.
Alle sette di mattina Los Angeles ha già cominciato a vivere. Sulle highway che si snodano intorno e lungo la città, file di automobili creano code infinite. Arrivano da sud, da nord, da est. No, non da Ovest, perché a Ovest c’l’oceano Pacifico, confine ultimo del West.
“La storia finale, l’ultimo capitolo dell’uomo occidentale, credo, risiede in Los Angeles”, aveva precisato il musicista Phil Ochs.
Ci sono molti modi per raccontarla. Ci hanno provato in tanti e nessuno è mai riuscito a definire la dimensione – realmente inafferrabile – di questo luogo senza confini. Uno dei più semplici, e che concede di avere una struttura descrittiva meglio articolata, è quello delle strade e dello spostamento. È il luogo dove molti sognano di arrivare e di fermarsi; per poi, molto spesso, ripartire. Non invita alla permanenza e non è facile incontrare persone che sono qui da più di una generazione. È un luogo di attraversamento, di solitudine e ci si trova spesso senza appigli e punti di riferimento. Il senso d’instabilità è la base con cui convivere, ma è anche vero che l’incertezza, data dalle molte e diverse realtà culturali, apre la possibilità di accedere al diverso.
Anche la fotografa Catherine Opie ha raccontato Los Angeles come luogo di strade e solitudine (immagine in alto). Molte delle sue immagini – che nel 1997 le avevano permesso di ottenere una personale al MoCA (Museum of Contemporary Art) di Downtown Los Angeles – raccontano con crudo realismo una città in cui i nastri di asfalto sono la realtà di tutti i giorni per migliaia di persone. (La popolazione di Los Angeles County sfiora i dieci milioni di abitanti).
La strada: ci si fa l’abitudine, diventa quasi un bisogno. Le stazioni radio provvedono a dare la necessaria compagnia e a instaurare, forse illudendo, un sentimento di appartenenza. Che resta comunque non-condiviso, ma circoscritto all’abitacolo del mezzo all’interno del quale si viaggia. I frequenti “Traffic Report” informano il viaggiatore dell’ennesimo incidente. Dove, come, quando e, soprattutto, che difficoltà sta creando alla circolazione.
La gente non si guarda in faccia sulle Freeway. Si resta isolati nei propri pensieri, problemi, appuntamenti; nella propria giornata, mentre si sfiorano altre mille vite e altre mille storie. Rischioso soffermarsi sui dettagli: ci si può veramente perdere. La sera quelle stesse persone riprendono l’automobile e ripartono in direzione opposta. Ancora per rimanere in coda, ascoltare la radio e arrivare finalmente a casa. Fino al giorno successivo.
Se le strade sono un supporto narrativo, Los Angeles è anche, e forse soprattutto, quello che sta nascosto dietro la facciata sorridente con cui si vende.
È un macrocosmo fatto di mille e più microcosmi. Una città fatta di altre innumerevoli città. Non è solo la Beverly Hills di Pretty Woman, la Malibu di Un Mercoledì da Leoni, la Hollywood di Sunset Boulevard, ma strade e storie che si incontrano, si intrecciano, si scavalcano. Imperterrite e indisturbate, mai sfiorate dal contingente. Chiedendo alla gente dove finisce o comincia Los Angeles, ho ricevuto sorrisi imbarazzati o grasse risate, accompagnate da spiegazioni vaghe. Forse nessuno lo sa realmente.
Percorrendo una sola grande arteria come Wilshire Boulevard, si incontrano molte realtà che sfumano l’una nell’altra, in un continuum di costruzioni più o meno belle, in una sequenza che pare non avere mai termine.
Wilshire comincia nell’estremo Ovest, ovvero dalle spiagge di Santa Monica. Sabbia bianca e gente che corre o va in bicicletta, ma anche barboni che dormono indisturbati e immobili nell’erba, con una bottiglia di liquore avvolta nella carta. (Già, perché e’ contro la legge tenere una bottiglia aperta in pubblico).
Cominciando il percorso verso Est si incontrano case, angoli di strada con negozi di ogni genere, un’infinità di carrozzerie (quelli che si chiamano body Shop, di vitale importanza in una città che vive sulle quattro ruote), ristoranti, Mac Donald’s e affini, grattacieli – in una sequenza che non si interromperà mai; se non a downtown, quando Wilshire Boulevard termina incastrandosi in South Grand Avenue. E si incontrano poi le mille facce dell’umanità che abita questo mondo. È fatta di uomini e donne d’affari, sudamericani, soprattutto, che aspettano l’autobus alla fermata, attori e attrici a caccia della loro prima parte importante che continuano a lavorare come camerieri; c’è gente che lavora, altra che, già sovrappeso, beve bicchieri giganti di coca-cola e mangia “junk food” (cibo spazzatura), ci sono gli homeless, con un carrello del supermercato pieno di stracci e un cartello appeso al collo con cui raccontano in poche righe di essere veterani del Vietnam. Oggi senza aiuto. Sono le mille contraddizioni che convivono nell’immenso tessuto urbano e che si ignorano reciprocamente. Si sorride, a volte. Altre si rabbrividisce.
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