
Grazie alla sua incredibile biodiversità il Madagascar è una delle mete imperdibili per chi ama la natura: quest’isola situata nell’oceano Indiano, la quarta più grande della Terra, ospita infatti circa 10.000 specie di piante da fiori (circa il 3 per cento di quelle di tutto il mondo), 250 specie di volatili e 400 specie di anfibi e rettili, il 98 per cento delle quali endemiche, a cominciare dalla maggior parte dei camaleonti esistenti sul nostro Pianeta. Ma le star incontrastate del mondo animale malgascio sono sicuramente i lemuri, che vivono solo in questo angolo terrestre e contano circa 110 specie, dall’apalemure grigio al catta, dall’avahi al sifaka coronato di Milne-Edwards, dall’indri al lemure dalla testa nera, dal lemure bianco sifaka al sifaka di Verreaux, dal maki mongoz al più inusuale di tutti: l’aye-aye, una straordinaria creatura alla quale il compianto zoologo ed esploratore britannico Gerald Durrell ha dedicato un divertente e istruttivo libro dal titolo Io e l’aye-aye (Adelphi, euro 13).

Il Madagascar, pur essendo un paradiso decantato dagli ecologisti, è in realtà un Paese a serio rischio ambientale, come scrisse già nel lontano 1987 su National Geographic la primatologa Alison Jolly, celebre studiosa dei lemuri: «Il luogo con il maggior numero di specie endemiche al mondo ha il maggior numero di specie a rischio di estinzione». La situazione purtroppo non è molto migliorata nell’ultimo periodo, nonostante che molti malgasci e stranieri lavorino insieme per la conservazione della biodiversità e lo sviluppo sostenibile, anche con iniziative locali nel campo dell’ecoturismo. Colpa della caccia di frodo e, soprattutto, della deforestazione – l’isola ha già perso l’85 per cento delle sue foreste naturali – che avviene principalmente per via del cosiddetto tavy, un metodo legato all’agricoltura di sussistenza da parte delle popolazioni locali che consiste nel bruciare la vegetazione per rendere il terreno coltivabile, sfruttarlo fino a quando non è più fertile, per poi spostarsi in un’altra parte coperta di verde e ricominciare daccapo.

E’ evidente che, a farne le spese, sono soprattutto flora e fauna: particolarmente difficile proprio la situazione dei lemuri, il nome dei quali deriva dal termine latino lemures, ovvero gli spiriti della notte della mitologia romana. Non c’è da stupirsi, visti i loro grandi occhi dall’aspetto un po’ inquietante e i versi che emettono, simili a gemiti. Una delle specie più famose in questo senso è l’indri, in malgascio babakoto, dal caratteristico manto bianco e nero, il più grande tra tutti i lemuri, che emette “canti” mattutini che possono durare dai 45 secondi ai 3 minuti e servono a definire i confini del territorio, a comunicare età, dimensioni e sesso ai potenziali rivali e a dare l’allarme in presenza di predatori. Al di là di questi “vocalizzi” particolarissimi, la maggior parte delle comunicazioni tra i lemuri avviene in realtà in “modalità silenziosa”, ovvero attraverso segnali chimici, il più antico e diffuso mezzo per scambiare informazioni nel mondo vegetale e animale. Tra gli studiosi esperti in questo settore c’è il dottor Stefano Vaglio, laureato in biologia all’Università di Pisa, professore associato in etologia alla University of Wolverhampton e ricercatore presso la Durham University, entrambe in Gran Bretagna.

Dottor Vaglio, qual è precisamente il suo campo di studi?
Per quanto riguarda la didattica, insegno comportamento animale, mentre in ambito di ricerca mi occupo di comunicazione chimica nei primati (inclusi gli esseri umani): la maggior parte del mio lavoro di ricerca è focalizzato sui lemuri dalla coda ad anelli (Lemur catta), tamarini edipo (Saguinus oedipus), mandrilli (Mandrillus sphinx) e babbuini verdi (Papio anubis), ospitati nei giardini zoologici europei e nei centri per lo studio dei primati. Inoltre, ho portato a termine lavori sul campo con i primati nella Repubblica Democratica del Congo, occupandomi di progetti di conservazione dedicati agli scimpanzé pigmei (Pan paniscus, comunemente detti bonobo). Secondariamente, mi interesso anche di valutazione e gestione del benessere dei primati che vivono in cattività.

Che cosa si intende per comunicazione chimica?
E’ una forma di scambio di informazioni che avviene attraverso l’olfatto: animali e umani usano questo senso per ottenere dati utili alla sopravvivenza e riproduzione a partire da sostanze chimiche, odori e feromoni, emesse da altri individui attraverso ghiandole, saliva, urina e sterco. In altre parole, queste “tracce” odorose inducono reazioni comportamentali riguardanti la sfera sociale e sessuale della comunità animale. Per esempio, studiando la comunicazione olfattiva dei mandrilli abbiamo scoperto che quando un maschio marca il territorio rilascia secreti odorosi dai quali altri individui della stessa specie, sia maschi sia femmine, ottengono importanti informazioni relative a sesso, età, rango all’interno del gruppo e qualità genetica dell’esemplare stesso che ha marcato il terreno.

Questo significa che una femmina può capire attraverso l’olfatto se un maschio sarà il padre ideale per la progenie?
Esattamente: la femmina percepisce se possa essere un partner adatto e con un buon corredo genetico da passare ai cuccioli, anche in grado di proteggerla e procurare a lei e alla prole il cibo necessario alla sopravvivenza. Lo stesso messaggio chimico funziona invece in maniera diversa per altri maschi: può essere, ad esempio, un deterrente a un’eventuale combattimento perché, attraverso l’analisi olfattiva della marcatura, gli altri esemplari comprendono se si trovano di fronte a un maschio dominante, forte e in buono stato di salute, che provocherebbe loro gravi ferite o, addirittura, potrebbe ucciderli. Per quel che riguarda nello specifico i lemuri, percepiscono dall’odore delle secrezioni di un loro simile se quest’ultimo sia ferito oppure in difficoltà: in tal caso sfruttano la situazione per sostituirsi al rivale nella gerarchia sociale.

Quali sono gli strumenti scientifici utilizzati per indagare la comunicazione chimica?
Fino a tre anni fa studiavamo la comunicazione chimica dei lemuri, o altre specie, solo in cattività perché non esisteva la tecnologia adatta per conservare adeguatamente i campioni tra il momento della raccolta e l’arrivo in laboratorio; in pratica era necessario conservare i campioni in freezer a -20 °C, rendendo cosi infattibile lo studio sul campo. Adesso invece è stata messa a punto una tecnologia innovativa che rende possibile il corretto mantenimento delle sostanze chimiche emesse dagli animali e prelevate nel loro habitat naturale: i campioni si conservano fino a un mese fuori dal freezer e dunque possono anche affrontare tranquillamente un viaggio intercontinentale senza il rischio di falsare i risultati delle successive analisi chimiche effettuate in laboratorio al campus universitario.

Dove avete utilizzato questo nuova tecnologia?
Grazie a essa una dottoranda, Rachel Sawyer, che lavora con me e un collega italiano esperto di lemuri, il dottor Giuseppe Donati (professore associato in primatologia alla Oxford Brookes University), ha fatto una ricerca sul campo proprio in Madagascar: oltre ad aver effettuato osservazioni di tipo comportamentale di due specie di lemuri foglivori e con abitudini notturne, lemure lanoso meridionale (Avahi meridionalis) e lemure sportive di Mme Fleurette (Lepilemur fleuretae), ha anche effettuato la campionatura dei segnali chimici emessi dalle foglie di alberi dei quali questi animali si cibano e di quelle – degli stessi o di altri alberi – che, invece, non fanno parte della loro dieta. Lo scopo dell’indagine è stabilire se ci siano differenze significative tra i profili chimici dei vegetali dei quali si nutrono e di quelli che, al contrario, evitano. La ricerca sul campo è finita, adesso stiamo cercando di intepretare i dati raccolti: a livello di segnali chimici, abbiano già messo in evidenza importanti diversità tra le foglie che i lemuri mangiano e quelle che, invece, lasciano sugli alberi. Questo è molto importante perché, comprendendo i meccanismi sottostanti alla loro scelta del cibo, saremo in grado di prevedere le risposte comportamentali delle due specie alle modificazioni del loro habitat, dovute alla deforestazione o ai cambiamenti climatici. Bisogna infatti ricordare che, vista la situazione del Madagascar, entrambe queste specie sono a rischio di estinzione, ma finora nessuno è mai riuscito a farle vivere in cattivitá perché non è stato possibile trovare la dieta adatta: se riusciremo a ricostruire esattamente il profilo chimico e, di conseguenza, le proprietà organolettiche delle specie vegetali delle quali si alimentano in natura, saremo in grado di mettere a punto una dieta ad hoc che ne permetta appunto l’allevamento, il mantenimento e la riproduzione in cattività, evitandone l’estinzione.

Non ci sono parole più adatte per comprendere l’importanza del lavoro svolto da studiosi come il dottor Vaglio e i suoi collaboratori che quelle di Alison Jolly: «gli ambientalisti come me sono convinti che gli ecosistemi viventi del Madagascar siano un patrimonio mondiale nel senso più vero, un tesoro di bellezza, scienza e meraviglia per tutto il mondo, e che mantenere in vita questi ecosistemi e le loro specie sia una responsabilità per tutti».

Il viaggio
Chi desidera scoprire la natura del Madagascar può rivolgersi a vari tour operator che programmano viaggi nell’Isola. Per esempio, Evaneos, la prima piattaforma che consente di organizzare viaggi al 100 per cento su misura mettendo le persone in connessione diretta con gli agenti locali basati in oltre 160 destinazioni nel mondo, propone I nove parchi, un itinerario di 15 giorni che si snoda tra le mete più gettonate del sud del Paese: dal Parco di Andasibe-Mantadia che ospita un vasto campionario di biodiversità, come microcebi pigmei, i lemuri più piccoli al mondo, gechi, rane e moltissimi camaleonti, al Parco nazionale di Ranomafana, caratterizzato da una fitta foresta pluviale umida dove si avvistano molte specie di lemuri e uccelli molto rari; dalla Riserva naturale di Anja, il luogo del Madagascar a più alta concentrazione di lemuri catta, dalla caratteristica coda ad anelli, al Parco nazionale di Andringitra che fa parte del complesso delle Foreste pluviali di Atsinanana, patrimonio dell’umanità Unesco; dal Parco nazionale di Zombitse, che ospita otto differenti specie di lemuri, alla Riserva naturale Reniala, un’area naturale protetta a gestione privata, dove si possono ammirare piante grasse e medicinali e gli stranissimi baobab a bottiglia, alberi alti fino a 20 metri.

Per chi ha meno tempo a disposizione c’è il tour Gocce di Madagascar che dura 8 giorni e prevede anche una tappa nel Parco nazionale dell’Isalo, uno dei più visitati del Madagascar: qui si possono avvistare diverse specie di lemuri, come il microcebo murino, il lemure catta, il lemure testa nera, il sifaka di Verreaux, il sifaka di Cocquerel e il lepilemure mustelino. Per informazioni, personalizzazione del viaggio e costi: https://www.evaneos.it/madagascar