GOURMET

Il “diamante della Terra” in mostra

Ad Alba è stato appena inuagurato il Museo del tartufo che racconta gli aspetti naturalistici, storici, culturali e gastronomici di questa “delizia per il palato” apprezzatissima a livello mondiale

Da quest’anno c’è un motivo in più per trascorrere un weekend autunnale nella città di Alba, fiore all’occhiello della provincia di Cuneo e di tutto il Piemonte.
Oltre alla tradizionale Fiera internazionale del tartufo bianco giunta alla 93esima edizione (fino al 3 dicembre, www.fieradeltartufo.org) – e tuttora una delle principali vetrine dell’alta enogastronomia e delle eccellenze italiane – da pochi giorni si può infatti anche visitare il Mudet (Museo del tartufo di Alba), ospitato in un edificio che circonda il Cortile della Maddalena, complesso storico cittadino affacciato sulla centralissima Via Vittorio Emanuele II.
Situato proprio di fronte allo spazio che ospita la Fiera internazionale del tartufo bianco, il Museo si sviluppa su un’area di 530 metri quadrati ed è composto da 10 sale espositive, suddivise in quattro aree tematiche, e da uno spazio laboratoriale.

Una foto esposta nella mostra “Truffle hunters and their dogs” © Steve McCurry

Gli scatti di Steve McCurry
Tra i “must” del nuovissimo spazio museale c’è la mostra Truffle hunters and their dogs, un progetto realizzato ad hoc per il Museo stesso dall’americano Steve McCurry, una delle voci più autorevoli della fotografia contemporanea. Nello scorso mese di settembre il celebre fotografo ha realizzato uno shooting nello splendido scenario collinare di Langa, Monferrato e Roero raccontando la vita dei tartufai (trifolao, in piemontese), delle loro famiglie e dei loro cani: compagni di cerca e compagni di vita che ci riportano a una sapienza antica, ancora profondamente legata alla terra, rispettosa del rapporto tra uomini e animali e delle millenarie conoscenze del mondo agropastorale.

In punta di piedi nella natura
Come ha scritto l’antropologo Piercarlo Grimaldi nel libro Il tartufo: una storia notturna, «il nostro contadino, che nel corso dei millenni ha contribuito ad addomesticare le colline del Piemonte meridionale […] non si comporta con il tartufo come con gli altri prodotti della terra […]. Quando va alla ricerca del tartufo cambia radicalmente formazione economica e sociale e […] adotta una strategia adattativa per molti versi pre-agricola. Un lavoro – quello del tartufaio – che si fonda su regole non scritte, che non conosce limitazioni nell’esplorazione dello spazio e del tempo e che sa camminare in punta di piedi nella natura […]. Nel suo operare egli porta con sé il cane, che è parte dell’addomesticazione che l’uomo ha operato sulla natura nel corso degli ultimi diecimila anni. Per un tempo e uno spazio limitato, ri-diventa dunque quello che era stato tanto tempo prima, raccoglitore, dando vita a un controritmo produttivo e culturale difficilmente riscontrabile in altre attività che oggi definiscono i lavori e i saperi della terra».

Una sala del Museo Mudet con gli scatti di Steve McCurry

Patrimonio Unesco
Non a caso nel 2021 “La cerca e la cavatura del tartufo” è entrata ufficialmente a far parte del Patrimonio culturale immateriale dell’umanità Unesco, riconoscimento che non riguarda solo il tartufo in sé, bensì “un insieme di conoscenze e pratiche trasmesse oralmente nel corso dei secoli, tuttora caratterizzante la vita rurale di diverse comunità diffuse in tutto il territorio nazionale”.

I rispettosi cercatori del “diamante della terra”
In questo senso, una figura fondamentale è appunto quella del trifolao, che riveste un ruolo determinante nella gestione delle aree produttive del tartufo e nella loro tutela: la tecnica della cava e della cerca attiene infatti a una serie di conoscenze e competenze relative al clima, all’ambiente, alla biodiversità che impongono una gestione sostenibile dell’ecosistema. Come ben spiegato nell’esposizione albese, i trifolao accorti infatti non solo traggono profitto dal territorio, ma lo rispettano e lo tutelano. Questo avviene anche grazie alla manutenzione forestale nelle tartufaie spontanee e alla piantagione di alberi simbionti del tartufo che, ai giorni nostri, contribuiscono a fronteggiare le conseguenze della crisi ambientale.

Pe fare un tartufo ci vuole un albero
Si tratta infatti di un fungo ipogeo, che vive sottoterra, e si sviluppa appunto solo in simbiosi con piante arboree o arbustive. Più precisamente, a livello radicale avvengono scambi nutrizionali che favoriscono entrambi: la pianta cede al tartufo sostanze nutritive e riceve in cambio acqua e minerali. Le piante simbionti più importanti per il tartufo bianco (Tuber magnatum Pico), la varietà più pregiata e costosa che matura da settembre a dicembre – definita, non a caso, “diamant de la cuisine” dal celeberrimo gastronomo francese Jean Anthelme Brillat-Savarin o “diamante della terra” da altri – sono la farnia, il pioppo carolina, il salice bianco, il pioppo bianco, la roverella, il cerro, il nocciolo e il leccio.

Foto Valerio Pennicino/Getty Images

La pioggia, dono del cielo
Senza contare l’importanza dei terreni che, nel caso del tartufo bianco, devono essere marnoso-calcarei, di altitudine inferiore ai 700 metri sul livello del mare, areati ma non eccessivamente permeabili, con presenza negli strati superficiali di una discreta umidità anche nei mesi più secchi. Le piogge, in questo senso, rappresentano una variabile imprescindibile nella definizione dell’habitat ideale del Tuber magnatum Pico in quanto determinano appunto l’umidità ideale per la sua crescita.

“Stregati” dalla Luna
Oltre a quanto detto, percorrendo le sale del Museo si apprendono altre nozioni interessantissime riguardanti la struttura e il ciclo biologico del tartufo bianco e di altre varietà come il tartufo nero pregiato invernale (Tuber melanosporum) o quello estivo (Tuber aestivum Vittadini). Si scopre, per esempio, come avvengono la scelta e l’addestramento dei cani da tartufo, in che misura le fasi lunari influenzano il lavoro del trifolao e in che modo quest’ultimo estrae il prezioso “bottino” nel bosco quando il quattrozampe lo scova così da non danneggiarlo e permettere la formazione di un nuovo corpo fruttifero.

Vista, tatto e olfatto
E ancora, si apprende come avviene la valutazione della qualità del Tuber magnatum Pico. Valutazione che prevede l’utilizzo di tre dei nostri cinque sensi: vista, tatto e olfatto. L’analisi visiva comporta la valutazione dell’integrità del corpo fruttifero: non si tratta solo di una questione estetica in quanto un tartufo integro si deteriora più lentamente. La valutazione tattile prevede invece l’analisi della consistenza del tartufo che, se di buona qualità, deve essere compatto, non troppo duro, ma neppure troppo elastico. Last but not least, l’analisi olfattiva: il tartufo bianco pregiato è caratterizzato da un profumo penetrante e persistente che evoca il terreno, la corteccia, il muschio e le foglie.

Foto Giorgio Perottino/Getty Images

Come rendere unici i piatti semplici
Senza dimenticare la sezione del museo dedicata all’utilizzo del tartufo bianco d’Alba in cucina: la carne cruda battuta al coltello, l’uovo fritto, la fonduta e i tajarin al burro non sarebbero diventati gli “ambasciatori gastronomici” di questo splendido territorio, amatissimi dagli italiani e dai turisti di tutto il mondo, senza un abbondante tocco di Tuber magnatum Pico. Rigorosamente crudo!