EDITORIAL

Alla ricerca del tempo perduto

Nell’infinità di interpretazioni della tragico lockdown da Covid-19, abbiamo scelto quello di “incubatore” di creatività. Per alcuni un momento utile, addirittura necessario. Poi il brusco ritorno alla realtà, dove il lavoro freelance in tutti i casi di intellettuali e artisti non è ritenuto un bisogno impellente. Siamo a luglio, e di ripresa ancora non si parla…

Il lato buono del Coronavirus 

Quante volte abbiamo desiderato avere più tempo? E quante volte abbiamo sentito dire (e forse abbiamo condiviso) che il vero lusso oggi è il tempo, perché tutti ne vorremmo di più. Ebbene lo abbiamo avuto questo tempo, seppur concesso da una sfortunata circostanza. Se una briciola di bontà ci ha concesso la pandemia da Coronavirus del 2020 è proprio un tempo a disposizione. Senza sottovalutare i problemi e le preoccupazioni che il lockdown dell’intero mondo ha procurato al lavoro, all’economia e alla salute, ci siamo focalizzati sulla generosa e improvvisa disponibilità di un bene molto prezioso e spesso rimpianto. Dal 10 marzo, tutto si è fermato: prima la Lombardia, poi via via ogni regione italiana ha cambiato ritmo, rallentandolo come non eravamo abituati. Era quello che volevamo? Certamente non così, perentorio e inevitabile. Però alla fine è tornato utile lo stop della giostra mondana. Era diventata folle, ma nessuno sapeva come rallentarla. Solo un evento drammatico poteva interrompere quel moto perpetuo.

Tra le tante interpretazioni possibili di questo colossale evento, abbiamo indagato l’impatto che ha avuto su artisti e intellettuali, bussando alla porta delle case dove si sono rinchiusi, e dove a volte ci hanno accolto sulla soglia, per paura del virus o di rompere un incantesimo interiore. Senza deadline, senza performance e senza l’urgenza della quotidianità, per molti di loro l’isolamento è stato un’occasione di riflessione e ispirazione. Una condizione senza precedenti, di cui vedremo i frutti scanditi nel futuro. Tra alti e bassi, qualcuno ci è riuscito. (Sfoglia la galleria di foto di Bruno Zanzottera, e continua a leggere sotto).

L’insostenibile leggerezza dell’arte

«Come per altre donne con famiglia, il lavoro durante la quarantena è stato più impegnativo, ma almeno ho smesso di viaggiare avanti e indietro tra Europa e USA», racconta Sharon Hecker, storica dell’arte e curatrice. «Ho finito di scrivere i libri iniziati, trasferito i workshop online e lavorato con più calma sulla mostra sulle ceramiche di Fontana che sto preparando per il Museo Peggy Guggenheim di Venezia. Di questo avevo bisogno. Negli ultimi 20 anni, il mondo dell’arte è diventato insostenibile, contribuendo con il suo movimento inquieto, costante e spesso inutile, all’inquinamento ambientale». Se ne parla da anni, ma forse, come ha scritto il critico Jason Farago sul New York Times, potrebbe essere finalmente giunta l’ora del “carosello” di persone e oggetti d’arte. Forse la pandemia ci ha portato a riflettere, e qualcosa cambierà.

Un modo nuovo di concepire le mostre

Altro tema amplificato dal confinamento casalingo riguarda appunto l’urgenza della sostenibilità. La pausa ci ha mostrato per qualche giorno come sarebbe il mondo senza inquinamento da combustibili, rumore e caos. E ora che lo abbiamo sperimentato, cosa succede? «Guardo le foto delle acque limpide nei canali di Venezia – continua Sharon – e penso che anche l’arte debba schiarirsi le idee. Sarà la volta buona per scoprire e apprezzare gli artisti locali. Forse la distanza sociale influirà sul modo di concepire le mostre, con meno opere e più idee, per offrire a chi le visita un’esperienza più intima e profonda».

Tornare all’introspezione

C’è infatti un altro effetto della contingenza da Covid-19 su cui riflettere: non potendo muoverci, abbiamo ricominciato a interessarci a ciò che ci circonda. È un enorme cambio di prospettiva: stare invece di fuggire sempre altrove. Come dopo una guerra, Barbara Pietrasanta, pittrice, membro dei direttivi di Fondazione Achille Castiglioni e del Museo della Permanente di Milano, spera in un ritorno all’introspezione e alla restituzione emotiva di cui l’arte è capace. Nello studio di casa continua dipingere i suoi “naufragi”. «Ci stavo lavorando già prima della pandemia, ma si è rivelato il tema giusto per esplorare i sentimenti sul cambiamento di rotta e sullo smarrimento. Era necessaria una parentesi dal mercato dell’arte e dagli eventi modaioli, senza dover rispondere a ruoli o aspettative».

Shakespeare docet

Anna e Mario, fondatori della compagnia teatrale La Dual Band, erano partiti il 7 marzo per il Lago di Como e lì li ha colti il lockdown italiano dal 10 marzo. «I primi giorni non riuscivamo a fare nulla. Poi è arrivata la febbre, la paura, l’ascolto ossessivo di dati, curve e picchi. Solo a fine marzo è tornata la serenità, perché se avevamo preso il Covid, era passato, le giornate erano stupende, e in un attimo eravamo nel bosco a passeggiare. A parte il supermercato ogni 15 giorni, godevamo, sì, proprio godevamo, di una solitudine assoluta, senza distrazioni. Per piacere abbiamo riletto i Promessi Sposi sul Kindle – Dio benedica Kindle. Poi abbiamo cominciato a studiare Shakespeare, concentrandoci sui personaggi di Amleto e Falstaff, sono eroi moderni, che hanno sempre qualcosa da insegnarci. Vorrei che il lockdown non finisse mai. Temo che questa magia si spezzi e tutto torni come prima, anzi peggio».

Il virus a casa è un lusso per pochi

Anche se ha colpito tutti indistintamente, questo virus non è democratico, come è stato detto. Pochi hanno avuto il privilegio di concedersi i due mesi di stop per sé. Un condizione da sfruttare minuto per minuto, che difficilmente si ripeterà. Lo sa bene Francesca Genti, poetessa e proprietaria della piccola casa editrice Sartoria Utopia, che pubblica libri cuciti a mano: «Ho finito i lavori in sospeso e ho imbastito nuovi progetti. Le idee affiorano, ma non bisogna avere fretta di svilupparle subito». Vincenzo Zitello, arpista celtico sul palco con De Andrè, Fossati, Battiato, ha finito due dischi: un Bestiario Medievale e un’opera sul roseto di Monza. Di solito tra mille interruzioni, ci impiega un anno ciascuno. «Un musicista è sempre solo quando studia e compone. Il vantaggio concesso dal lockdown invece è la dilatazione del tempo. Sono sicuro che ne risulteranno tanti nuovi lavori musicali».

Ispirati dalla città immobile

Delle volte, la solitudine è uno condizione difficile da guadagnarsi, soprattutto quando ci si muove in una fitta rete sociale, alla quale è impossibile sottrarsi a meno di non tagliare i ponti. Ed è l’esperimento che Riccardo Paternò Castello aveva deciso di fare, isolandosi già dallo scorso agosto nel suo studio di Milano. «Osservo con curiosità come reagiscono le persone trovandosi forzatamente nella clausura che io ho scelto. Tutta la città è immobile, senza voce». Alle sue spalle è appesa una tela immensa con una ragnatela concentrica: «È Milano vista dall’alto, a matita e gomma. Ho voluto usare strumenti base che chiunque ha in casa. Tutti possono approfittare di questo momento». Di fianco c’è un altro quadro: il Trionfo della Morte, ispirato al celebre affresco conservato a Palazzo Abatellis a Palermo. C’è quasi una gioiosa vitalità in quello scheletro a cavallo, come c’è una sorta di pazza gioia nella città di Milano placata dal virus. È chiusa in fermento dietro le porte, timidamente affacciata alle finestre.

La gabbia creativa

Gaia Manzini è una scrittrice e sceneggiatrice. La casa dove abita con la sua famiglia è diventata tutto. «Lo spazio si restringe, il mondo in cui viviamo è più piccolo, i luoghi di casa si contaminano gli uni con gli altri e vengono contaminati da luoghi esterni che altrimenti non sarebbero mai entrati tra le nostre quattro mura. Improvvisiamo una palestra in anticamera, un aperitivo in balcone, il teatro in salotto. Ma se il mondo è più piccolo, inevitabilmente ci sono molte cose che non posso più fare. Niente manicure, massaggi, parrucchiere. Improvvisamente vorrei organizzare una gita, farei un tuffo in un lago. Sogno aperitivi a buffet, tavolate di quaranta persone, matrimoni, battesimi, anniversari.

La contaminazione che sento è quella del dubbio, dell’incertezza, ma anche delle idee. Non c’è nulla di così fertile come l’impurezza, la mescolanza, la tangenza. Le gabbie hanno sempre aiutato la creatività, che tutto sommato è una fuga dalle costrizioni. Con in più, nel mio caso, uno strano cortocircuito: la chiusura ha coinciso con la chiusura del mio romanzo. È stato positivo perché lavorare alle ultime pagine, mi ha concesso di dimenticarmi per qualche ora di quello che stava accadendo fuori».

Ce la faremo

All’inizio si faceva fatica a credere nella gravità di questo virus. Il panico era attribuito allo stile drammatico degli Italiani. E il peggio accadeva proprio nella produttiva Lombardia. Ci doveva essere un equivoco. Massimiliano Cividati doveva andare in scena la 300a replica dello spettacolo Ghiaccio all’Out Off a fine febbraio: annullato, causa Covid-19! La compagnia quindi parte per il successivo, a Palermo. Arrivano, scaricano i furgoni e quando sono pronti per montare, li informano che lo spettacolo non si può fare: la causa, di nuovo, è il Covid. Tutti i teatri abbassano il tendone fino a chissà quando. L’Italia intera chiude il tendone, confinata dal resto del mondo. Max si arrende. Qualche giorno dopo l’OMS dichiara la pandemia. Sono momenti di costernazione, di rifugio nell’intimità famigliare, di entusiasmo nel scoprirsi padre. Cucina, pensa, scrive finalmente quei racconti per l’ospedale che vuole trasformare il protocollo di cura del cancro alla vescica in una storia meno spaventosa per chi deve affrontarlo. E lo spettacolo del 25 aprile? Si prova in remoto, con una tecnologia sperimentale che sincronizza attore e musicista, ciascuno da casa sua. Si va in scena su Facebook. «Fatalità, la trama di Ghiaccio rappresenta bene l’isolamento in cui siamo piombati, – dice Cividati – racconta della spedizione di Amundsen al Polo Sud, del naufragio con la sua ciurma e di come sono sopravvissuti per due anni alle lande gelate. Ce l’hanno fatta loro. Ce la faremo noi».

Pausa

Ognuno si è adattato rapidamente alla realtà. Il ballerino Lazare Ohandja, del Camerun, è rimasto confuso ma contento del tempo di qualità guadagnato con sua moglie e i figli. Niloofar Yamini, fotografa e giornalista iraniana ha scoperto di aspettare un bambino, e le sue amiche artiste Maryam e Saba, hanno sperimentato i vantaggi dei workshop online, che possono trasmettere anche in Iran. Quando si tornerà alla normalità, forse disdicono lo studio, che ha costi altissimi, e lavoreranno online o a domicilio.

Prove generali di fattibilità

Rinunciare al pubblico è dura per chi suona o fa teatro o cinema. Alessandro Vaccari (Marthial) e Rocco, dj del centro culturale Il Tempio del Futuro Perduto, ha partecipato a una diretta in streaming di 340 ore. Raffaele Kohler, tromba del gruppo Ottavo Richter faceva un piccolo concerto alla finestra ogni giorno alle 18, Benedetta, Beniamino e Lucrezia, i giovani della Dual Band, stanno pensando di portare uno spettacolo nei cortili delle case, e il videomaker Elia Rollier si è organizzato con un minivan per proiettare film e video sulle facciate dei palazzi. Molte di queste idee sono nate dalla contingenza, e già nelle fasi di allentamento delle misure di sicurezza, non sono più strettamente necessarie. Ma restano iniziative straordinarie che possono durare oltre la situazione, altrettanto straordinaria, che le ha generate. D’altronde per due mesi abbiamo sperimentato nuove idee da cui non si torna più indietro. Ora c’è il trauma della ripartenza, difficilissimo, l’ultimo nell’agenda politica, come se non fosse indispensabile. Abbiamo bisogno di salute, istruzione, servizi. Ma come si può concepire la vita senza arte, cultura, intrattenimento?

Questo servizio fotografico fa parte di Covidiaries (www.covidiaries.it), un progetto realizzato dai fotografi dell’agenzia @Parallelozero.