È quello che dice il premio Nobel Orhan Pamuk che nei vicoli della Superba riconosce le atmosfere del Bosforo
Le parole di Orhan Pamuk
Leggere, sottili, immaginifiche, profonde. Sia quelle scritte sia quelle pronunciate. Le parole di Orahan Pamuk sono un flusso ininterrotto di idee, sentimenti, sensazioni e immagini evocative che incanta il lettore e chi lo ascolta. Anch’io ne ho subita tutta la fascinazione quando l’ho incontrato a Palazzo Ducale in occasione di una sua applauditissima conferenza. Era il 28 maggio del 2011, un assolato pomeriggio che invitava ad andare al mare. Invece il Salone del Gran Consiglio quasi per incanto si è riempito di pubblico che ha seguito attento i discorsi danzanti di Pamuk. Apparentemente lievi, ma nella realtà profondi, a volte anche tragici e spietati per le analisi fatte della realtà mondiale in generale e di quella della Turchia in particolare. Mi ha colpito soprattutto la sua capacità di raccontare lo stretto legame che unisce Genova a Istanbul e alla Turchia. Un legame che va oltre le note vicende storiche e affonda le sue radici in una comune cultura fatta forse di piccole cose, ancora profondamente radicate. Terminata la conferenza, Anna Nadotti, che ha tradotto il suo ultimo libro Romanzieri ingenui e sentimentali, me l’ha presentato. Come per incanto il flusso della sua narrazione è ripreso incantatore e seduttivo, come il suo sguardo di giaietto. “Mi sono perso nel dedalo del centro storico di Genova, lungo i carrugi che sono simili ai vicoli della mia Istanbul più segreta, più nascosta. Ho ritrovato gli stessi odori e gli stessi profumi un po’ aspri e pungenti portati dal mare, che balugina con improvvisi lampi di luce lontano fra le case simili a quelle che si affacciano sul Bosforo o sul Corno d’Oro. Case un po’ scrostate, ma anche palazzi orgogliosi e monumentali, che hanno le stesse persiane verdi, gli stessi grandi portali, imponenti e pomposi, o gli stessi modesti portoni, i cui anditi sono invasi da muffe umide. Case e palazzi che custodiscono storie antiche e accolgono un’umanità che ha attraversato le acque del Mediterraneo, in fuga da paesi bruciati dal sole dove il terrore e la fame sono in agguato. Anche i gatti sono simili a quelli di Istanbul. Indolenti e sornioni, si lasciano accarezzare e poi scompaiono quasi per incanto, persi nelle loro cacce imperscrutabili”. E ancora. “Anche i suoni che ho ascoltato nei vicoli e delle strade di Genova avevano armonie comuni a quelle di Istanbul. Erano quelle delle musiche che scendevano dalle finestre aperte fino sull’acciottolato. Erano canzoni che parlavano di amori lontani e della nostalgia per la propria terra, contrappuntate dalle parole agglutinate delle mille lingue del Mediterraneo. Poi ci sono le parole che Genova condivide da secoli con la Turchia portate e contaminate da marinai e mercanti: mandilli, i grandi fazzoletti che senvono anche a coprire il capo delle donne; camallo, il facchino del porto; gabibbo, il forestiero indesiderato; giöxìa, la persiana, l’imposta, la gelosia, nata per tenere nascosta la bellezza delle donne pur permettendo loro di guardare all’esterno. Ho ritrovato nella cucina genovese i sapori dei cibi che più amo: i minestroni di verdure, densi e spessi, come quelli che preparava mia madre; le acciughe fritte e croccanti come quelle che si gustano nei ristorantini sotto il Ponte di Galata; le torte pasqualine infarcite di verdure dell’orto che ricordano nella loro preparazione in modo impressionante il nostro börek.”
La nostra conversazione si è interrotta e Orhan Pamuk è stato letteralmente circondato dai suoi appassionati lettori. Tanti. Tutti avevano in mano un suo libro da fargli firmare. Nei loro occhi mi è parso di leggere una luce di riconoscenza per i pensieri, le sensazioni e le mille storie che i romanzi dello scrittore avevano donato loro. Perché i romanzi dell’autore di “Istanbul”, come è scritto nel risvolto di copertina del suo ultimo libro, “sono delle dichiarazioni d’amore al romanzo stesso, alla sua tradizione e al suo mistero”. Io aggiungerei: sono un atto d’amore per i suoi lettori.
Nel nome della Superba
Ho ritrovato Orahan Pamuk pochi mesi dopo il nostro incontro a Genova durante il mio ultimo viaggio a Istanbul e in Turchia. Ma non l’ho incontrato mai. Eppure è stato sempre a mio fianco e i suoi libri sono stati il mio baedeker per capire la complessità di questo paese sospeso fra Oriente e Occidente, fra integralismo e laicismo, fra il grandioso passato ottomano e la più avveniristica modernità. Grazie ai suoi scritti ho ritrovato anche le tracce dei Genovesi che abili mercanti sono arrivati a Istanbul tanti secoli fa per intessere i loro fruttuosi commerci. Ma preziosi compagni di viaggio sono stati anche due altri scrittori, liguri questa volta: Edmondo De Amicis e Remigio Zena. A Istanbul lascio l’animata Istikla Caddesi, salotto buono della città, e scendo lungo Galip Dede caddesi, la via dei negozi di musica. Fra liuti e chitarre della vetrina del primo negozio a sinistra incrocio lo sguardo cupo e il ciuffo sbarazzino di Fabrizio De Andrè, immortalato in una storica foto. I suoi occhi sembrano indicarmi la Torre di Galata che è a pochi metri. Austera, imprendibile, rigida, superba fra le basse case che la circondano, è sempre al solito posto. Sullo spiazzo alla base della torre si apre una specie di anfiteatro che accoglie il Ceveniz Café con cuscini, pergolato, tavolini di legno laccati di rosso, dove si fuma il narghilé e si bevono tè e caffè turchi doc. Costruita nel 1348, costituiva il punto più elevato delle fortificazioni, erette dai Genovesi attorno alle loro case, ai loro magazzini e ai loro fondaci, che furono abbattuti nel XIX secolo. Fino alla fine degli anni Settanta del Novecento fu utilizzata dai vigili del fuoco per avvistare gli incendi in città. A pianta circolare, con una copertura a tronco di cono, si sale con le scale o con l’ascensore fino alla sua sommità, a 68 m di altezza, dove vi sono un ristorante, un bar e una galleria panoramica da cui si osserva un meraviglioso panorama sulla città. Ci salgo anch’io e rimango incantato dalla stupenda visione che si estende sotto di me, fra vicoli e contorti carrugi, dove i Genovesi del tempo avevano riprodotto la loro Genova. Mi pare quasi di essere al belvedere di Spianata Castelletto e il porto sul Bosforo vicino al Ponte di Galata mi sembra quello della Superba. Al posto dei campanili delle chiese genovesi spuntano i minareti a punta delle mille moschee di Istanbul. Ma i Genovesi non si fermarono solo a Costantinopoli. Si spinsero intraprendenti e audaci lungo le coste del Mar Nero fino a Trebisonda e alla Crimea, su quelle dell’Egeo e del Mediterraneo, alle porte con la Siria, dove costruirono magazzini, castelli, forti e fondaci per proteggere e sviluppare i loro commerci lucrosi. Un esempio delle grandi capacità imprenditoriali della Superba che varrebbe la pena di imitare anche oggi.
Da leggere
Molto prolifico Orhan Pamuk (1952), nato a Istanbul dove vive, è autore di numerosissimi libri che l’hanno portato al successo internazionale e al Premio Nobel per la Letteratura nel 2006. Queste sono le sue opere più di successo pubblicate tutte in Italia da Einaudi: La nuova vita, Il mio nome è rosso, Neve, Il castello bianco, Istanbul, La casa del silenzio, Il libro nero, La valigia di mio padre, Altri colori, Il signor Cevdet e i suoi figli e Il museo dell’innocenza. Al centro delle narrazioni di Orhan Pamuk ci sono sempre Istanbul, la Turchia di oggi e del passato, la cultura e la società turche nelle loro complesse e poliedriche sfaccettature. Narrazioni sempre complesse, profonde e avvincenti fatte con uno stile impeccabile che hanno affrontano storie di passioni travolgenti non solo erotiche e fisiche, ma soprattutto intellettuali e spirituali. Tra Proust e Montaigne, tra Thomas Mann e Voltaire, tra storia e memoria, tra vita reale e vita immaginata, tra attaccamenti nostalgici alla tradizione e slanci di occidentalizzazione, tra orgogliosa valorizzazione della cultura turca e analisi critica della realtà contemporanea del proprio Paese, tra letteratura e impegno civile, tra lirismo e melanconia, la sua opera è difficile da inquadrare in schemi critici tradizionali. Anche lo scrittore ha avuto dei problemi con la censura governativa. E’ stato incriminato (accusa poi ritirata) nel 2005 perché aveva denunciato il massacro degli Armeni durante un’intervista rilasciata a un giornale svizzero. Nel 2011 è uscita la raccolta di conferenze, tenute da Pamuk all’Università di Harvard sui suoi romanzi e sul romanzo in generale, intitolata “Romanzieri ingenui e sentimentali” (Einaudi). In questo libro, ispirato e profondamente personale, ci introduce nel magico universo dello scrittore.
Non solo Pamuk
Edmondo De Amicis (1846-1908) nel 1875, allora corrispondente dell’Illustrazione Italiana, si reca a Istanbul e scrive articoli che incendiano la fantasia dei lettori. Articoli che sono poi raccolti nel libro “Costantinopoli” (Einaudi), che Orhan Pamuk ha definito come la più fedele e puntuale descrizione della sua città fatta da uno scrittore straniero. Sultani, eunuchi, concubine e il Gran Bazar ne sono i protagonisti. Remigio Zena, pseudonimo di Gaspare Invrea (1850-1917), pubblica “In Yacht da Genova a Costantinopoli” (De Ferrari Editore), dove racconta il suo viaggio compiuto nel 1885 a bordo del cutter “Sfinge”. Nikolai Murzakevic è l’autore di “Storie delle colonie genovesi in Crimea” (Sagep), pubblicato nell’ambito del progetto “Sulle rotte del Levante”. Prezioso libro che ricostruisce l’avventurosa storia che vide protagonisti numerosi Genovesi che anche qui costruirono castelli e fondaci. Molto ben documentata è la guida storica “I Genovesi in Crimea”, pubblicata con il patrocinio del Comune di Genova e della Cassa di Risparmio, che ricostruisce puntualmente, anche con un buon apparato iconografico e puntuali informazioni storiche, quei tempi lontani.
Cucina genovese alla turca di Antonio Bovetti e Pietro Tarallo
Andata e ritorno da Genova alla Turchia e viceversa. Sapori e piatti della gastronomia turca e genovese hanno viaggiato per secoli sulle tolde delle navi della Superba e le cucine dei due paesi si sono fuse in un saporito abbraccio. Eccone alcuni. La preparazione del pandolce genovese, deriva dall’ antica tradizione egizia di arricchire il pane con lo zibibbo, ma anche dalle importazioni genovesi di uvetta sultanina dalla Turchia. Gli stecchi sono un antico piatto della cucina genovese. La loro origine è quasi certamente araba, e, ancor oggi, si possono trovare in Turchia e nei paesi sulle sponde meridionali del mar Mediterraneo. Questa specialità dovrebbe essere giunta a Genova attraverso le rotte commerciali con l’Oriente e, con il passare degli anni, è entrata a far parte della tradizione gastronomica genovese. Gli stecchi sono composti da un impasto di carne, formaggio e verdure, avvolto in una fetta di prosciutto, impannati nell’uovo sbattuto, passati nel pangrattato e fritti nell’olio extravergine. Molto diffuso in Turchia è il börek, pasta sfoglia di varie dimensioni e forme, ripiena di carne tritata o formaggio o verdure, molto simile alle torte pasqualine liguri. Magari ripieno di carciofi, molto diffusi anche in Turchia, la cui origine sprofonda nella mitologia. Cynara, era una ninfa dagli occhi verdi e viola, alta e snella e con capelli color cenere, cioè una bellezza da togliere il fiato! Zeus, se ne innamorò perdutamente. Così si racconta tra le pagine della mitologia greca. Purtroppo la fanciulla, era anche volubile e capricciosa e non si voleva concedere al suo autorevole spasimante. Giove, che non brillava né di pazienza né di comprensione, andava su tutte le furie ad ogni bizza dell’amata; stufo e sconsolato, in un momento d’ira, trasforma Cynara in un carciofo verde e spinoso come il carattere dell’amata. Il legame con la mitologia non è casuale, perché la pianta è originaria del bacino del Mediterraneo orientale,compresa la Turchia. Ricompare sui tavoli dell’ aristocrazia rinascimentale grazie alle esportazioni e ai commerci degli arabi e dei turchi in Europa: è per questo che il nome carciofo deriva dall’arabo (al) kharshuf ed è da questa radice, venendo esportato in tutta Europa, si trasforma a seconda della nazione, in Danimarca diventa artiskok, in Francia artichaut, in Germania artischoke, in Inghilterra artichoke in Portogallo alcacossa ed infine in Spagna alcachofa.