La Parigi del Medio Oriente somiglia sempre di più alla Dubai del Mediterraneo: la nuova Beirut che piace al Golfo
Testo e foto di Naida Caira
Se compito dell’architettura è quello di ripensare gli spazi in relazione ai cambiamenti umani, in una città come Beirut, distrutta nove volte solo in epoca recente, la sfida era indiscutibilmente ambiziosa. Solidere, impresa privata a partecipazione pubblica, è il soggetto protagonista della ricostruzione del distretto centrale della capitale libanese, ma negli ultimi 13 anni, ovvero da quando ha gettato le prime fondamenta nelle immediate vicinanze della linea verde, è sinonimo di un’azione urbana discussa, invasiva e sempre meno tollerata.

L’acronimo sta per Société Libanaise pour le Dèveloppment et la Recostruction du Dystrict Central de Beyrouth ed è uno di quei casi in cui il nome non mantiene le promesse. Per chi oggi cammina nel distretto centrale, lungo quella che durante la guerra civile era la linea di separazione tra i quartieri Hamra e Gemmayzeh, ciò che colpisce è la definizione asettica di una città che ha livellato frettolosamente le ferite per far spazio a nuovi e più rassicuranti miti. Quello del commercio primo tra tutti.

Gru e martelli pneumatici sono diventati parte integrante del paesaggio urbano di Beirut tanto quanto un tempo lo erano state l’architettura ottomana e francese. Le piazze hanno forme squadrate al cui centro svettano torri monolitiche circondate da aiuole curate con un’attenzione quasi maniacale. Edifici-contenitore soppiantano la caotica area portuale di una fu Parigi del Medio Oriente che oggi somiglia sempre più alla Dubai del Mediterraneo. Lussuose caffetterie in stile occidentale si susseguono sotto interminabili portici, anch’essi disegnati secondo un rigore seriale di linee orizzontali e verticali.

Non serve essere esperti di urbanistica per domandarsi se la demolizione di oltre 50 edifici storici del centro ad opera di Solidere fosse davvero necessaria, alcuni libanesi se lo domandano con più forza e meno ingenuità dato che dietro i progetti di ricostruzione c’è stata la pesante ingerenza della famiglia Hariri – al potere all’epoca dell’inizio lavori e dell’assegnazione dei fondi – che ha operato espropriazioni frettolose ai limiti dell’incostituzionalità. Di tutti i simboli il più sfacciato è forse Beirut Souk. Il più grande centro commerciale della città con oltre 200 negozi, per lo più di moda, è un tentativo fallito se non nel nome di reinterpretare l’opulenza e l’atmosfera degli antichi Souq al-Tawileh e Souq al-Jamil di cui nel 1990 restava soltanto un cumulo di macerie. Non impressiona soltanto che al posto dei mercanti di tessuti ci siano vetrine di Zara o Armani, né tantomeno che gli odori di incenso e spezie siano stati sostituiti da quelli delle esclusive profumerie in franchising. Colpisce che lo sforzo di ridisegnare sia stato risolto superficialmente con quello di sostituire, importare, rimpiazzare, utilizzando a modello gli standard di sviluppo urbano del Golfo Arabo.

A prima vista non sembra un’idea troppo felice quella di riscrivere una città poco a misura d’uomo in uno stato in cui convivono 16 religioni in appena 10.000 km² . Nonostante questo, e a dispetto delle azioni di protesta organizzate nel quartiere, un recente rapporto delle Nazioni Unite rivela che a Beirut nel prossimo decennio verranno costruiti 300.000 nuovi edifici, lasciando una città già sovraffollata praticamente priva di spazi pubblici.