[slideshow id=26]Testo e foto di Claudio Puglisi*
Sprofondato nel sedile dell’autobus che dall’aeroporto di Punta Arenas porta a Puerto Natales, leggo tra sonno e veglia un cartello che passa veloce sulla strada: “Bienvenidos en la Provincia de Última Esperanza”. Ho letto male, penso, succede dopo un viaggio di oltre un giorno e 6 ore di fuso. Un paio di ore dopo, a Puerto Natales, un vento gelido punge la faccia con cristalli di ghiaccio salato strappati da chissà dove. Forse non avevo letto male, penso, mentre mi avvio all’hostal dopo aver indossato tutto ciò che di pesante avevo nello zaino.
Proprio così: sono nel capoluogo della Provincia de Última Esperanza, in Cile. Questo nome non deriva però dalle avversità climatiche e dalla durezza dei luoghi; ma da ciò che il capitano Ladrillero, arrivato in nave nel 1558, annotò sul diario di bordo: «Questa è la mia ultima speranza». Cercava l’entrata occidentale dello stretto di Magellano. Dopo due anni in queste difficili acque, e dopo aver esplorato ogni singolo fiordo della frastagliata costa della Patagonia, anche l’ultimo braccio di mare si rivelò solo un profondo golfo, ben lontano da sfociare a est nell’Atlantico. Ladrillero abbandonò l’impresa; ma alla futura provincia rimase il nome: Última Esperanza.
Avevo cominciato a sognare un viaggio in Patagonia, leggendo i romanzi di Francisco Coloane, Luis Sepúlveda, Erri De Luca. Volevo fare un viaggio che assecondasse tutte le mie passioni. Quindi macchina fotografica, quindi natura, quindi cavallo. E volevo entrare in contatto con gli abitanti, condividere la loro vita.
Ecco la soluzione: lavorare con i gauchos, meglio in bassa stagione, quando il clima inospitale tiene lontano i turisti.
Ho impiegato mesi per cercare le informazioni, lunghissime ore in rete e costosissime telefonate per contattare un nome trovato su Internet, e poi scoprire che lì il telefono non è ancora arrivato. Alla fine ho individuato due nomi nel territorio di Torres del Paine: Don Raul Cardenas, proprietario dell’Estancia Cerro Castillo, e Don Pepe Rajcevic, proprietario della tenuta Tercera Barranca e dell’agenzia turistica Baqueano Zamora, a Puerto Natales. Con in tasca nulla di più di un vago appuntamento a Puerto Natales con Don Pepe, il 14 settembre parto per Santiago del Cile.
Giunto in Patagonia dopo un giorno di viaggio, mi rendo immediatamente conto che laggiù il tempo ha due dimensioni: una, puntualissima, per mezzi di trasporto e servizi, e una sociale propria delle amicizie, dei rapporti umani per la quale aspettare è un piacere scandito dal mate, dai racconti, dagli asados. Se non si capisce questa dinamica, si resta stranieri. Quindi, con l’anima in pace, aspetto in agenzia Don Pepe che, quando arriva, mi comunica il programma: prima sarò ospite per tutto il tempo che vorrò da Don Raul; poi, per tutto il tempo che vorrò, nella sua estancia.
In tarda mattinata arrivo a Cerro Castillo durante le Fiestas patrias del 18 e 19 settembre. Sfilano a cavallo huazos (i gauchos cileni), bambini e ragazzi danzano la cueca; si tracannano litri di chicha (il liquore estratto dal mais fermentato) e si mangiano empanadas di carne e cipolla. Non avrei potuto sperare in un’accoglienza migliore. La macchina fotografica va da sola; sullo sfondo, colline pelate dal vento e bruciate dal freddo dell’inverno appena finito e, più lontano, le montagne bianche.
È sera quando incontro Don Raul. Mi raggiunge nella caffetteria El Ovejero, gestita dalla figlia e dal cognato. È ancora vestito con gli abiti della festa, in sella a un magnifico criollo baio. Ha toni bruschi, voce profonda sotto baffi folti e scuri e parla uno spagnolo stretto. Non lo nascondo, sono un po’ intimorito. Sarà il freddo, sarà la chicha, sarà Don Raul o tutto insieme. Come un nuovo operaio, mi assegna un posto in camerata e un cavallo, sommariamente mi comunica gli orari e il luogo dei pasti e mi illustra il lavoro. Molto semplice. Bisogna riunire le greggi sparse nella gigantesca tenuta, oltre 5.000 ettari, e condurle alla tosatura: in una settimana circa 8.000 pecore. Qui, lontani dalle montagne, le pecore si tosano in anticipo, prima del parto. Il programma non sembra difficile, ma ce la farò? Don Raul non mi ha mostrato il mio cavallo; so solo il nome, che è tutto un programma: Chicha, come il liquore. Ah sì, mi ha detto anche l’ora di partenza: le 6 del mattino. Quindi, sveglia alle 5 e colazione alle 5 e mezza.
Si bardano i cavalli con un basto rivestito da una pelle di agnello come sella, e si parte seguiti dai cani, con il vento freddo che soffia forte e fa oscillare persino i cavalli. Si procede al passo per un paio d’ore tra le colline. È quasi primavera ma non è ancora spuntato un filo d’erba. Ovunque ci sono lepri e guanacos (specie di lama), falchi e condor. Per me è tutto straordinario, per loro la vita di ogni giorno. Mi rivolgono la parola con il contagocce, ma rispondono volentieri alle mie domande.
Cecio guida il gruppo verso un’ampia valle. Hanno già individuato il gregge mimetizzato tra gli arbusti e l’erba, e spediscono i cani a radunare le pecore. Solo a questo punto si passa a un po’ di trotto e galoppo, per mantenere il gregge compatto fino al locale della tosatura.
Una pecora ogni tre minuti. Questo è il tempo che un buon esquilador impiega per tagliare 4-5 chili di lana. Per ammissione di Raul, figlio di Don Raul, la lana non è di qualità eccelsa. La razza Corrediales, molto diffusa in Patagonia, produce un filamento spesso 25-32 micron, mentre quello delle più pregiate Merinos è di 18-20 micron. D’altra parte, il clima impone una razza rustica e resistente, che viva tutto l’anno allo stato brado mangiando ciò che il terreno produce in ogni stagione.
I giorni si susseguono identici, mai noiosi, ritmati da cavalcate, greggi, pasti a base di pecora, tanto per cambiare, e sonni profondi. L’unica distrazione è riordinare foto e appunti la sera, bevendo un buon cafecito o un vino tinto alla caffetteria El Ovejero.
Giunge così il giorno in cui Don Pepe Rajcevic viene a prelevarmi per lavorare nella sua Estancia, Tercera Barranca. Sul suo vecchio combi attraversiamo la valle del Rio Las Chinas, circondati dai contrafforti delle Ande che Don Pepe mi indica per nome: «Sierra del Cazador, Sierra del Toro, Macizo del Paine, Lago Salmiento, Sierra Contrera, già all’interno del hielo patagonico, Sierra Baguales, che nella lingua parlata dai Tehuelches, antichi abitanti dell’area, vuol dire “senza padrone” e prende il nome dai cavalli selvaggi abbandonati a migliaia dagli “occidentali”, che i Tehuelches rinchiusero nella stretta valle trasformata in enorme recinto».
Attraversiamo al guado il Rio Las Chinas, tutt’altro che un fiumiciattolo tranquillo, e giungiamo per una strada sempre più dissestata alla casa del guardiano della tenuta, oltre 8.000 ettari di terra. Mi guadagno in fretta la stima di Don Pepe perché noto in mezzo agli arbusti una pecora che annaspa: incinta e gonfia di lana, non riesce a rialzarsi e sarebbe destinata a morire durante la notte per il gelo che qui in questo periodo raggiunge i meno 15 gradi. Questa è la prima causa di morte delle pecore, che non si possono tosare prima del parto, perché qui, diversamente dalla zona del Cerro Castillo, fa ancora troppo freddo al momento delle nascite.
Le torri del Paine sono vicinissime, con le vette innevate avvolte in nuvole rosa; in basso, una laguna azzurro smeraldo e un fenicottero rosa; tra una folata di vento e l’altra, sento i richiami degli uccelli acquatici che fuggono minacciati da un falco.
La casa dove vive Don Juan, il guardiano, è pulitissima e ordinatissima, ma non c’è acqua calda (una doccia mi farebbe davvero piacere), non c’è gas, ci si scalda a legna, si cucina a legna e non c’è luce. Questo è un guaio per la batteria della macchina fotografica che col freddo si consuma più rapidamente.
Nella tenuta, Victor e Ramon si occupano di 200 cavalli e del loro addestramento. Dividono i puledri destinati al lavoro da quelli per le passeggiate dei turisti. È ora di selezionare dal branco i cavalli di tre anni e cominciare la doma.
Anche qui si parte di mattina, ma un po’ più tardi, in attesa che la temperatura diventi più sopportabile. Selliamo 3 criolli, e ci muoviamo in un dedalo di canali e acquitrini formati dai ghiacci e dalle nevi che fino poco prima coprivano le colline. Cavalchiamo per mezza giornata verso i torrioni. Ci sfrecciano davanti velocissimi ñandúes, che sembrano struzzi, solo un po’ più piccoli, e sulle nostre teste volano i condor. Arriviamo al recinto dove pascolano i cavalli, una cinquantina, che dobbiamo riportare a casa.
Sulla via del ritorno, ci fermiamo per il pranzo. Mentre Victor accende il fuoco, Ramon e io procuriamo il pasto. Semplice: si sceglie una pecora piccola, si scuoia, si divide in due e si infilza su uno spiedo per cucinarla lentamente con le braci intorno. L’operazione richiede molto tempo, molto più di un’ora, non saprei quantificare; ma qui aspettare ha una funzione sociale: ci si accoccola a terra al caldo delle braci e delle le coperte, si beve mate, si parla. Questa volta sono loro che vogliono sapere di me, dei nostri cavalli, del nostro lavoro… loro che si fabbricano i finimenti da soli, nei mesi invernali, sono molto interessati ai miei gambali di Tolfa, apprezzano la qualità del cuoio e delle cuciture. È stato il pranzo più bello della mia vita.
Torniamo in serata alla casa, e i cavalli vengono messi nel piccolo recinto senza cibo né acqua, tranne quelli che servono per lavorare il giorno dopo, lasciati liberi e con un po’ di fieno. In attesa della cena (pecora con patate), si beve mate davanti alla stufa, si mangia pane e burro, si chiacchiera di mogli e figli lontani.
Il mattino successivo comincia la doma. A lazo vengono catturati 4 puledri scelti, mentre il resto del branco viene liberato. A turno i cavalli vengono legati al palo e, a seconda della vivacità, si atterrano o meno. Poi si tagliano la criniera e la coda e si lasciano per una notte al palo. Il tempo di doma è varia, da 1 a 3 – 4 mesi.
L’ultimo giorno, vado con Don Juan a cercare le pecore morte nell’estancia per prenderne il vello. «Laggiù ce ne sono due», dice. Trottiamo per mezz’ora e le troviamo. Rapidamente Juan le scuoia, lega la pelle sul cavallo e via. «Lì ce n’è un’altra». Altri tre quarti d’ora di trotto e altra pecora da scuoiare, e così via fino a recuperare una decina di velli. «Come fa a capire dove sono le carcasse in 8.000 ettari di terra?» gli chiedo. Mi indica i condor. Sulla strada sterrata che porta alla casa vedo una palla arancione. Fermo il cavallo, e torno indietro; scendo e raccolgo un enorme uovo. È un uovo di ñandúe, vorrei regalarlo a Don Juan, ma lui preferisce che lo porti a sua moglie per preparare le empanadas.
Sull’autobus per l’aeroporto di Punta Arenas, mi ricordo che, anni prima, un mio amico tornato da un viaggio di lavoro in Patagonia non parlò per 15 giorni; non riusciva a raccontare nulla; gli era divenuta estranea la nostra fretta. Lo capisco.
*Claudio Puglisi. Geologo, nato a Roma nel 1963, è ricercatore ENEA e docente di Geomorfologia Applicata alle Università di Roma3 e San Agustín
di Arequipa (Perù). Esperto nella valutazione del rischio da frana, ha partecipato a varie spedizioni in America Latina. Istruttore Nazionale di arrampicata aportiva del Cai, ha la passione per i viaggi a cavallo e per il racconto di viaggio.