Visita guidata a Couva da Moura, il quartiere dove vivono 8000 emigrati da Capo Verde e altre ex colonie portoghesi
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Testo di Claudio Agostoni*, foto di Bruno Zanzottera/Parallelo Zero
Sulle guide turistiche lo Chapitô è segnalato come un locale dalla cui terrazza si può bere una bibita e contemporaneamente godere di una delle migliori viste panoramiche di Lisbona. In realtà è molto di più. Lo spazio che oggi ospita lo Chapitô è un ex riformatorio, di Proprietà del Ministero della Giustizia, raggiungibile inerpicandosi tra gli irti vicoli che salgono sulla collina del Castello di São George. Una grande struttura, articolata su 4 livelli, che dal 1987 il “Ministèrio da Justiça” ha messo a disposizione dell’attività che Teresa Ricou, o meglio, il personaggio da lei creato, la “pagliaccia Tetè”, porta avanti dalla fine degli anni ’70: un progetto di formazione circense e teatro di strada per giovani disagiati. Nell’articolazione di questa mission lo Chapitô organizza corsi, attività ludiche e di espressione artistica. Concede anche i suoi spazi ai ragazzi delle immense periferie di Lisbona. Ed è in una serata in cui su uno dei palcoscenici del locale si esibivano dei giovani rapper di colore che sento per la prima volta il nome Cova da Moura. Un ragazzo della crew dei giovani artisti che sul palco stanno sparando rime in un contest di free style mi spiega che lui e gli altri ragazzi arrivano da una enclave africana della periferia di Lisbona. Cova da Moura appunto. Un bairro dove oggi vivono più di 8000 persone, la stragrande maggioranza delle quali ha meno di vent’anni ed è di origine africana. Più specificamente originari di Capo Verde, l’arcipelago alla deriva nell’Atlantico, al largo del Senegal.
Al termine del concerto, dopo un paio di birre, scatta automatico l’invito per l’indomani: “Perché non fai un salto a Cova da Moura?”. Accetto e, come prologo, mi faccio raccontare la storia del barrio, spesso dipinto dalla stampa locale come una sorta di Bronx lusitano. Bisogna tornare al 1974, quando un colpo militare mise fine a 40 anni di dittatura fascista. Uno dei primi atti del Consiglio della Rivoluzione fu concedere l’indipendenza alle colonie africane, economicamente disastrate e senza una pubblica amministrazione. Una scelta politica che in pochi mesi spinse migliaia di angolani, mozambicani e capoverdiani a emigrare in Portogallo per sopravvivere.
Chi arrivava dalle ex colonie non poteva pagare un affitto. In alternativa si sentiva dire dai padroni di casa che gli inquilini neri erano sgraditi. E così, nel giro di cinque anni, alcune migliaia di africani raggiunsero la zona nord-ovest di Lisbona, allora fatta di grandi campi di grano, e iniziarono a costruirsi la propria baracca abusiva.
A condividere questa scelta anche alcune centinaia di returnados, gli ex coloni portoghesi. Cacciati dopo il 25 aprile del ’74 dai governi dei paesi africani in cui vivevano, subendo pure l’esproprio degli immobili, con i pochi soldi che avevano nelle banche portoghesi si costruirono, anche loro abusivamente, qualcosa che assomigliava più a una vera casa che a una baracca. Oltre a un nuovo quartiere nacque così anche una forte conflittualità geografica: nella parte alta di Cova da Moura gli ex coloni, e nella parte bassa gli ex colonizzati, che covavano verso i returnados sentimenti di odio.
L’indomani seguendo le istruzioni ricevute allo Chapitô vado alla stazione del Rossio, nella Baixa. Inconfondibile grazie alla caratteristica entrata a doppio ferro di cavallo, è un piccolo capolavoro in stile neo-manuelino costruito alla fine del 1800. Da qui partoni i treni per Sintra e per l’interland. Due fermate e si è a Benfica, un quartiere noto per la squadra di calcio che porta il suo nome: la più amata dagli africani da quando ci giocava il leggendario Eusebio. La fermata dopo è quella di Santa Cruz – Damaia, nel quartiere Amadora. È qui l’appuntamento con i ragazzi conosciuti allo Chapitô. La fermata ha due uscite. La prima porta a un complesso di palazzi di edilizia popolare costruiti negli anni ’60. La seconda, dopo un corridoio che scavalca i binari, porta sulla strada per Cova da Moura. Mi attende uno dei ragazzi conosciuti la sera prima, e con lui mi incammino verso il bairro. L’accesso è in salita ed è segnalato da un grande murale che ritrae Tupac Shakur. Una sorta di enorme sentinella. La mia guida mi accompagna alla sede dell’associazione Moinho da Juventude (mulino della gioventù). È un’organizzazione non profit nata poco meno di trent’anni fa. Tutto iniziò con tre donne del quartiere che aprirono una piccola biblioteca grazie al denaro donato da due autori fiamminghi e olandesi di libri per l’infanzia. In tre mesi, 700 bambini si erano iscritti. Ma lo fecero anche i loro genitori, le zie e i cugini, che grazie a quella biblioteca sfogliarono le pagine di quelli che quasi sempre erano i primi libri a entrare nelle loro case. Poi arrivarono altre iniziative. A causa della mancanza di acqua corrente nelle abitazioni, i residenti si riunirono, crearono una campagna di protesta, attirando l’attenzione sul loro problema con spettacoli di canto e burattini, dando vita così al primo nucleo dell’associazione.
Oggi entrando nei locali del Moinho da Juventude incontri un asilo, dove lavorano molti ragazzi del bairro. E poi si sale in locali dove lavorano diverse commissioni che si occupano di svariati problemi sociali, a cui segue una grande sala piena di personal computer e una sala prove dove troviamo altri ragazzi che la sera prima erano a suonare allo Chapitô. Qui sul muro, tra un ritratto di Nelson Mandela e uno di Amilcar Cabral, campeggia la scritta: “L’educazione è l’arma più poderosa con cui si può cambiare il mondo”. Colorate sono anche le targhe in ceramica che battezzano le strade e i vicoli del barrio, utilizzando parole che spesso evocano l’Africa.
Girovagando per Cova da Moura ci si rende subito conto che si sono costituiti micro-universi in tutto riconducibili ad altre realtà. È quello che lo scrittore portoghese Manuel Ferreira ha definito come “Terra Trazida” (la terra portata). Il quartiere è l’universo che con più precisione riproduce il quotidiano d’origine. L’esempio più eclatante è che se nella natia Africa si conviveva con gli animali, qui nella periferia urbana di Lisbona residenti allevano un maiale sul tetto di cemento della propria abitazione. Durante i fine settimana il bairro diventa un vero e proprio scampolo d’Africa. Alle porte delle case si tagliano i capelli proprio come nei paesi d’origine degli improvvisati parrucchieri. E i clienti arrivano da tutta Lisbona perché se in città intrecciare i capelli
costa quasi 30 euro, a Cova da Moura si paga meno di un terzo. Il sabato sera le strade sono invase dal fumo prodotto da bracieri che grigliano spiedini di pollo e frattaglie di maiale. Per la preparazione degli alimenti si utilizzano prodotti tradizionali come la farina di mais o di manioca.
Prodotti che sono conservati usando metodi arcaici, come l’utilizzo del boli, una zucca secca, che serve per conservare e fermentare il latte. Nei bar-ristoranti del quartiere (un recente censimento ne ha contati una trentina, tutti rigidamente afro) improvvisate orchestrine mischiano vecchie coladere importate da Capo Verde con del funky senza tempo. Tirare l’alba, tra un piatto di cachupa (fagioli, miglio e piccoli pezzetti di pesce o di carne) e un bicchiere di bibita al tamarindo, cullati da una morna o da un rap-creolo, equivale ad avere la conferma definitiva che la Lisbona odierna non è
solo fado e baccalà.
Come visitare il barrio di Cova da Mouro
È opportuno concordare la visita del barrio con l’associazione culturale Moinho da Juventude (tel. 214 971070, dir-moinho@mail.telepac.pt, www.moinhodajuventude.pt) per avere una guida che vi accompagnerà nel barrio. Un servizio questo che è parte integrante del progetto Sabura (‘sapori’ in creolo), che organizza visite guidate anche per combattere la pessima fama che il quartiere si è fatto negli ultimi anni. È possibile farsi prenotare un pranzo o una cena in uno dei localini del bairro dove, con una manciata di euro, si può fare un incontro ravvicinato con la saporita cucina creola. Nei fine settimana come companatico i locali offrono musica dal vivo, ruspante come le loro pietanze.
“Ilha da Cova da Moura” è un lungometraggio del 2010 del cineasta lusitano Rui Simões che ben fotografa la realtà del barrio. Oltre al trailer (http://www.youtube.com/watch?v=U58U6mGJOmk) dalla rete si può scaricare l’intero lavoro.